Be happy with what you have to be happy with.

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Sono sempre molto curioso rispetto ai lavori di Virzì, lo trovo un registra estremamente autentico e con una capacità di lettura della realtà fuori dal comune.

Pochi come lui sono in grado di cogliere, e trasferire sui propri personaggi, senza distinzione di genere, età o estrazione sociale, le sfaccettature della vita. Con cinismo ritrae il presente senza fare sconti a nessuno e quasi mai i suoi personaggi sono solo buoni o solo cattivi. Gli piace sguazzare in quella zona grigia di cui tutti noi siamo dotati, ma che spesso tendiamo a non accettare che venga scoperta dagli altri e che ci rende, in qualche maniera, dei bugiardi esistenziali.

Ieri sera sono stato a vedere “Il capitale umano” carico di aspettative. Dal trailer e dalle varie notizie diffuse dall’ufficio stampa di 01, il film doveva esprimere, attraverso il suo intreccio, una forte critica verso il folle sistema finanziario che ha portato, non solo il nostro paese ma il mondo intero, ad andare a sbattare a 300 all’ora contro un muro.

“Ci siamo giocati tutto, anche il futuro dei nostri figli…” recitava ossessivamente il trailer. Ma di tutto questo, purtroppo, nel film c’è veramente poco. Troppo poco rispetto alle aspettative create.

Il film parte a razzo, i primi 20 minuti sono da ansiolitico doppio e fino alla fine del primo tempo, oltre a reggere alla grande, sembra preparare un humus profondo per darci la sua visione sul macro tema annunciato dal titolo. Ma invece di farlo, nel secondo tempo il film diventa inaspettatamente piccolo. I macro temi diventano micro temi e tutto prende la piega di un gialletto ben fatto ma che, minuto dopo minuto, si allontana dal soggetto principale. Virzì, arriva al tornante con il piede pigiato a fondo sul gas ed invece di seguire la traiettoria, va dritto e si perde sulla sabbia, costeggiando da qui in avanti la sua storia, e ritrovando la via della pista, solo grazie a dei cartelli esplicativi in coda al film. Troppo poco.

E’ un film suicida. In senso letterario. Si uccide da solo.

Si strangola allo specchio, non capendosi, non accettandosi, proprio come uno dei suoi personaggi, con un lato buono ed uno oscuro. Ovviamente è un problema di scrittura (come sempre in Italia) e questo è un vero peccato perché Virzì è tremendamente bravo a creare le atmosfere e, tecnicamente, il film è ineccepibile. Un plauso particolare, va a Valeria Bruni Tedeschi, che abbaglia tutti in mezzo ad un cast di attori bravi (salvo qualche piccolo scivolone), ma non certo memorabili.

Un peccato, un vero peccato. Perché non si può dire che sia un film brutto, ma proprio per questo mi dà ancora più fastidio di un film completamente sbagliato. Avrei voluto sapere da Virzì che cosa veramente pensasse del capitale umano, del mondo della finanza creativa (distruttiva), di come le persone vengano accecate dai guadagni facili e finiscano per distruggere se stessi e gli altri che hanno attorno. Perché è questo che manca: il macro tema è disancorato dalla trama e per questo appare posticcio e non giustificato. Ahimè un errore non da poco.

Alle elementari, il peggiore errore che potevi fare durante un compito di italiano, era quello di andare fuori tema.

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Pradamano (Udine), Cinecity sala 1, ore 17:30, 31.12.2010. Sette spettatori in sala, proiezione strepitosa, schermo enorme, sistema 3D Xpand. Meglio di così non poteva andarmi per vedere quello che reputo un manuale di estetica cinematografica. Sarà l’entusiasmo, sarà stata la qualità della proiezione, il 3D per la prima volta non invasivo, ma Tron è una gioia immensa per i sensi implicati.

Chi è Joseph Kosinsky? Boh! Mai sentito. Eppure qualcuno, a questo giovinotto del ‘74 ha messo in mano 190 milioni di dollari e gli ha detto “Vai, facci sognare”. Apro una piccola parentesi sull’Italia? Forse è meglio di no. Per non infierire su me stesso, soprattutto… Dicevo, opera prima, 190 zucche. Non male. Ma chi è, appunto, Joseph Kosinsky? Intanto dal cognome è ebreo per cui questo è già qualcosa nel cinema americano, secondariamente è una architetto laureato in design e con un master in modellazione di ambienti virtuali. Terza cosa è un regista pubblicitario. Bastano queste tre cose per farsi dare 190 milioni di dollari? No. Spero almeno. Ci vuole talento. E tanto. E il caro Joseph ne ha. Sicuramente come artista visivo. Un quarto punto poi, scatenante a mio avviso, è l’incontro con David Fincher che propone a Joseph di trasferirsi da NY a LA per diventare uno dei registi in esclusiva dell’Anonymous Content. LA significa Studios, il passo per arrivare a Tron è stato sicuramente più breve. Joseph applica le sue doti designer in ambienti CGI e comincia a realizzare i suoi mondi, i suoi spot non stanno mai ‘nel reale’ ma sempre nel suo ‘altrove’ generato al computer. Il suo gusto è straripante. Basta vedere questo per capire di cosa sto parlando.

Bene. Abbiamo capito chi è il regista. La produzione è Walt Disney, che ormai sembra avere un appuntamento fisso col capolavoro. Joseph si avvale (un pochino ma non tanto) anche della consociata Pixar, così, tanto per gradire. Riapro la parentesi sull’Italia? No. Meglio di no.

La storia di Tron è buoni contro cattivi. Poi i buoni vincono. Fine. Sì, perchè di fronte a cotanta bellezza, per una volta, posso veramente prescindere dalla sceneggiatura (che comunque non è fra le più becere) senza sentirmi per forza additato come esterofilo, studiofilo, hollywoodiofilo e quant’altro. I sensi sono talmente presi dalle immagini e dal sonoro che la storia potrebbe pure non esserci. Per certi versi è un po’ come Avatar (ma io preferisco Tron) il cui grande valore è la generazione di un mondo a parte, con tanto di lingua e botanica, ma secondo me va pure oltre. Mentre Avatar si inventa di sana pianta un mondo inesistente e incoerente con la natura umana, Tron si prende l’unica licenza di riuscire a digitalizzare l’essere umano per immergerlo in un mondo di bit ma poi, il mondo stesso con le sue interazioni, diventano tutte perfettamente coerenti con l’ambiente. E sti cazzi della storia. La bellezza del mondo di Tron è commovente. In tutto: scenografie, costumi (se dimagrisco faccio una pazzia e me li compro!), trucco, mezzi di trasporto, gadget.

Gli attori del film sono veramente pochissimi, se ne contano 3 + 1 (+1 perchè Jeff Bridges interpreta due ruoli, solo che in uno dei due è un suo avatar ringiovanito digitalmente – e sul quale ho qualche dubbio sul realismo) gli altri sono tutti di compendio.

Dicevo del sonoro! Beh, dopo le musiche di Trent Treznor in The Social Network, pensavo di aver raggiunto il massimo. Ed invece Tron stupisce anche per questo. Le musiche sono firmate dal duo francese Daft Punk che appaiono anche in qualche breve sequenza. Un misto di techno e pop con frasi drammatiche e orchestrazioni in perfetta sintonia con le immagini. Sembra impossibile pensare ad altra musica per la colonna sonora, il video e l’audio sono materia fusa assieme, non a caso con un elemento in comune a livello genetico: il bit.

Quello che non mi è piaciuto in realtà è proprio il caro Joseph! Ah! Non certo in veste di capo di una serie di bravissimi art director giapponesi (il tocco manga si vede eccome), ma proprio come regista. Ebbene sì. Forse la scelta del protagonista poteva cadere su qualcun altro o forse poteva essere diretto meglio, fattostà che l’omino è proprio di legno e non pare per niente affascinato (come dovrebbe) dal mondo in cui viene calato. Non fa domande e accetta tutto. Boh. Forse mi sarei comportato in altra maniera ma capisco che Tron è appunto un film da Studios e per tanto deve essere il più semplice e spettacolare possibile. Natura spietata: tanto dà da una parte e tanto toglie dall’altra. Del resto il film ha uno dei suoi momenti più emozionanti proprio quando parla della perfezione che è sempre di fronte a noi ma non può essere mai raggiunta.

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“The social network” un film che non parla d’amore. E questo è poco ma sicuro. Ma cominciamo dall’inizio. Cinema King, sala 1, proiezione, al solito fuori fuoco, 2 gatti in sala.

TSN racconta la storia vera (o romanzata) della genesi di Facebook, attraverso le esperienze di Mark Zuckerberg, suo ideatore e fondatore che, per colpa o grazie ad una delusione d’amore e al suo genio, crea il più grande sito di condivisione del mondo ossia Facebook.

Tutto parte dal campus di Harvard, qui, il classico patriottismo americano, ci fa notare, tanto al chilo, quanti premi Nobel, quanti Pulitzer, l’università abbia sfornato e si dipana verso il successo del gruppo di lavoro di Zuckerberg, interpretato fin troppo bene da Jesse Eisenberg. In ogni caso il dipinto dei ventenni americani che si possono permettere di frequentare Harvard non è certo dei migliori. Grandi bevute, grandi scopate, grandi pippate, tutte cose già viste.

Tutto bene e tutti amici finchè non ci sono i soldi (tanti) in ballo. Zuckerberg infatti, apparentemente non legato al successo monetario ma solo a quello ‘tecnologico’, come nella migliore favola disneyana, ad un certo punto si trova ad estromettere uno dei soci fondatori e suo migliore (ed unico) amico che, suo malgrado, ‘aveva letto male il contratto’. Il suo ex-amico gli fa causa. Contemporaneamente due bellimbusti che avevano cercato di assoldare Mark per scrivere il codice di un social network, lo citano per appropriazione indebita di proprietà intellettuale.

Le fondamenta della sceneggiatura sono basate sulle due deposizioni che accuse e difesa mettono in atto per arrivare ad una transazione fra le parti. Si svolgono in due luoghi diversi e vedono contrapposti Zuckerberg da una parte al suo migliore amico e dall’altra ai due bellimbusti. Il montaggio è alternato fra le due deposizioni e le conseguenti ricostruzioni. Lo script ha un ritmo da rave party e, per chi non ha una certa nozionistica di base di informatica e networking, potrà sembrare che si parli di marziani. La scrittura non si ferma un attimo, è assordante ma non esagerata, e non è assolutamente casuale. Facebook è nato appena 7 anni fa ed oggi è una public company che vale 25 miliardi di dollari. Raccontarne l’ascesa non poteva che sottostare a regole di ritmo e vivacità.

Fincher firma col sangue una regia ficcante e decisa. Sottolinea, a sua volta, la velocità con la quale le ‘amicizie’ si fanno e si disfano all’interno di Facebook. Non è una regia compiaciuta, è quasi da film indipendente, tanta camera a spalla, molto addosso ai protagonisti, senza mai sbrodolare, come sarebbe facile, in ritratti manieristici. Fa un grande uso, della musica firmata da Trent Treznor, che rispolvera il Juno 60 e il Nord Lead e si posiziona fra la techno e l’elettropop, buttando, qua e là, qualche pennellata di new wave. Coinvolgente, non c’è che dire, appena tornato a casa l’ho subito scaricata da iTunes. Assolutamente da sottolineare la strepitosa sequenza quasi onirica della gara di canottaggio in cui la musica (che riprende in chiave trance giapponese il tema di Edvard Grieg   ”In the Hall of the Mountain King”) e le immagini abbandonano il linguaggio corrente e si tuffano nell’estro puro. Un tuffo nella follia che aggiunge dove parrebbe impossibile aggiungere ancora.

Cosa manca in tutto questo pacchetto? L’amore appunto. Zuckerberg è solo per tutto il film. Lui, il fondatore di Facebook, ha un solo amico (troppo facile?). E nel corso del film perderà anche quello. La ragazza di cui era innamorato l’ha piantato e non riesce a dimenticarla. Appare timido il ragazzo, quel tipo di timidezza che porta un po’ all’autocommiserazione e un po’ all’aggressività. Non accetta mai di aver fatto degli errori e non si capacita di come gli altri, interessati solo ai suoi soldi, possano andare contro di lui che… in fondo in fondo… ama. Il finale melodrammatico e lento ci sta tutto. Il film chiude così come apre, a specchio, come se l’inizio e la fine fossero fuori dalla parentesi supersonica del resto della storia. Chiude con la lentezza di una persona sola… e cosa c’è di più lento che una persona sola?

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Link: Hanno tutti ragione , libro di Paolo Sorrentino

Tony Pagoda è un cantante melodico con tanto passato alle spalle. La sua è stata la scena di un’Italia florida e sgangheratamente felice, fra Napoli, Capri, e il mondo. È stato tutto molto facile e tutto all’insegna del successo. Ha avuto il talento, i soldi, le donne. E inoltre ha incontrato personaggi straordinari e miserabili, maestri e compagni di strada. Da tutti ha saputo imparare e ora è come se una sfrenata, esuberante saggezza si sprigionasse da lui senza fatica. Ne ha per tutti e, come un Falstaff contemporaneo, svela con comica ebbrezza di cosa è fatta la sostanza degli uomini, di quelli che vincono e di quelli che perdono. Quando la vita comincia a complicarsi, quando la scena muta, Tony Pagoda sa che è venuto il tempo di cambiare. Una sterzata netta. Andarsene. Sparire. Cercare il silenzio. Fa una breve tournée in Brasile e decide di restarci, prima a Rio, poi a Manaus, coronato da una nuova libertà e ossessionato dagli scarafaggi. Ma per Tony Pagoda, picaro senza confini, non è finita. Dopo diciotto anni di umido esilio amazzonico qualcuno è pronto a firmare un assegno stratosferico perché torni in Italia. C’è ancora una vita che lo aspetta. “Paolo Sorrentino ha inventato Tony Pagoda, un eroe del nostro tempo, il più grande personaggio della letteratura italiana contemporanea.” (Antonio D’Orrico)

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Avendo partecipato al concorso online di 242 Tv, ho ricevuto una bella recensione da parte della rivista cinematografica online Zabriskie Point. L’autore della recesione è Francesco De Nobili.

Incollo la recensione.
“Nelle parole di Piero Costantini il suo “Camille” non è un cortometraggio bensì un film breve. Fidatevi, non si tratta solo di semantica; la differenza c’è e si nota. La definizione di film breve è assolutamente calzante perché questo lavoro del lungometraggio (o film) ha tutto, fuorché la durata. E a guardarlo viene voglia di attendere il primo film lungo di Piero Costantini. In questo ottimo lavoro dalla chiara venatura horror, assistiamo ad una storia oscura e misteriosa,fatta di voci lontane, incubi e racconti macabri, ma anche di problemi irrisolti, di follia e di morte; quella morte che non sembra preoccupare il gatto Camille.
Una scena d’apertura che ricorda quella di “The Shining” al quale per la verità il regista, che è anche montatore e sceneggiatore di quest’opera, sembra dovere più di un’ispirazione…
La regia di Costantini è molto interessante per ritmo e movimenti. Ottime le prove di tutti gli attori, compreso il piccolo Jacopo Robortella. Una menzione di merito va al direttore della fotografia Blasco Giurato che, se da un lato non ha bisogno di presentazioni, va applaudito per aver contribuito alla riuscita del lavoro di un giovanissimo regista come Piero.”

Link alla pagina originale:
http://www.zabriskiepoint.net/node/9569
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