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La fine di un uomo, l'inizio di una nuova era.

Nel 94 avevo 17 anni. Nel 94 ero a Imola, il primo maggio. Nel 94 vidi coi miei occhi la morte di un genio, la fine di un’era. Tanto basterebbe per finirla qua. Tanto basterebbe per piangere. E quel giorno piansi, eccome se piansi. Attorniato dai ferraristi che, in quel periodo per loro senza gioie, piuttosto che tifare l’accoppiata Schumi-Briatore, marketing e cervello, tifavano Senna, cuore e anima. Da ferraristi, da uomini. Con un sogno nel cuore. Se Senna avesse fallito, anzi… se la Williams, come la storia volle, dopo anni di dominio, e come poi successe, avesse fallito, ecco che, al posto del tedesco d’acciaio, sarebbe arrivato lui in Ferrari. Ed è uno dei più grossi rammarichi sportivi che da italiano possa avere mai vissuto. Più dei rigori non parati da Zenga a Italia 90, più di Albertini, Di Livio, ecc… Ayrton se n’è andato così, sotto il cartellone dei Pilotissimi Agip. All’ospedale di Bologna. Dopo tre bollettini medici ripresi dalle camere analogiche delle troupe regionali Rai, tristi come il loro linguaggio. Tristi come me e milioni di altre persone che vedevano in Senna qualcosa di più di un pilota. E più passa il tempo più i miei sentimenti di 17enne assumono significato. Il più grande di tutti, di sempre, si era immolato in Italia, patria, voglia o no, della velocità motoristica, in modo che tanti altri non finissero come lui. Un martire, a suo modo. Suo malgrado. Dopo di lui la paura in F1 è diventata marginale. Ora è più spaventoso perdere uno sponsor che la vita. E vedere il povero Frank (Williams), vittima – e contemporaneamente carnefice – spingersi su quella carrozzina, mi fa pena più che rabbia. In fin dei conti, stando alla versione ufficiale, mai chiarita fino in fondo, la colpa è sua: Ayrton si è ritrovato col volante in mano a trecentoallora  e si è schiantato contro un muro di cemento. Ma non sarebbe bastato. Fosse stato solo quello forse sarebbe sopravvissuto. Ma, per una di quelle cose che capitano soltanto nei film, soltanto nei racconti che basano la loro straordinarietà sul caso, il cranio di Ayrton è stato perforato da un braccetto della sospensione anteriore che, a causa di una presa d’aria sul casco, durante l’impatto, è riuscita, anzichè scivolare via, ad infilarsi laddove centinaia di prove balistiche non sarebbero mai riuscite ad ottenere lo stesso risultato. Allora se, come Ayrton diceva, un dio c’è, ecco che Dio ha visto in lui il veicolo per trasmettere all’uomo la sensazione di un limite raggiunto: uomo, basta, fermati! E l’uomo si è fermato, tun tun, al tamburello.

Il bello di Senna è che ci resta tutto e che, anche in differita, possiamo rivivere la sua leggenda. Il documentario di Asif Kapadia riporta sulla terra un dio, un semidio, un paladino, chiamatelo come volete, ma lo riporta sulla terra non per esaltarlo ma per restituirlo a chi, per troppo poco tempo – o per nulla – ha avuto la fortuna di seguirlo. E se il cinema è vero che rende le storie eterne, ecco che, grazie a questo documentario, Senna diventa un classico, al pari di Ulisse, di Martin Luter King, Oskar Schindler. Non, ovviamente, per la portata politica o storica tradizionale, ma in ambito narrativo puro: la storia di Ayrton è la storia di un eroe, di un rivoluzionario, di un genio sopraffino, di un teorico mistico, di un laico applicato.

A me rimane quel primo maggio passato sull’inter regionale di ritorno da Imola, chiuso dentro la mia solitudine di diciassettenne brufoloso, solo come un cane, a pensare al re dei re che, all’ospedale di Bologna, se la passava peggio di me. Penso al mio ritorno a casa, verso ora di cena, al cenno col capo di mia madre che mi diceva, senza parole “Sì, è morto”. A quella cartellina da disegno che usavo per andare a scuola, dipinta di viola, con delle scritte colorate in verdeoro. Al mio amico ferrarista sfegatato che, per quanto cinico e incazzato per quel ‘favorino’ restituito a Prost nel 90 in Giappone, comunque riconosceva la grandezza di un uomo che era diventato un mito, un giorno di primavera, in Italia.

 

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